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Storia e Storie

La storia del cinema ‘Diana’ di Amalfi nel ricordo di Aniello Lauro

Inserito da Sigismondo Nastri (redazionelda), venerdì 12 febbraio 2016 09:46:50

di Sigismondo Nastri
M'è capitato nelle mani il n. 198 de "La Voce del Pastore", bollettino della Parrocchia di sant'Andrea apostolo di Amalfi, datato gennaio-giugno 2010. Nelle pagine 12-14 vi trovo la storia del cinema Diana, punto di riferimento di quelli della mia generazione, raccontata da un protagonista, Aniello Lauro, che ha percorso le orme tracciate dal padre, l'indimenticabile Bartolo Lauro, ‘o direttore, come tutti lo chiamavamo.
Aniello ricorda che la passione per il cinema ha coinvolto quattro generazioni della sua famiglia, da quando nel 1907 il nonno, mast'Aniello, maestro falegname, decise di aprire ad Amalfi la prima sala, che chiamò pomposamente "teatro Verdi". Era nel vicoletto (‘e dooje mure) che porta a santa Maria Maggiore, ai piedi della scalinata, e aveva una capacità di 250 posti tra platea e loggione. Vi si rappresentavano soprattutto operette. Quella via però era stretta e, di conseguenza, per motivi di sicurezza, nel 1919 arrivò un provvedimento di chiusura.
Mast'Aniello non si perse d'animo. Trovò un altro locale idoneo, sulla prima rampa delle scale che conducono a san Giacomo. L'anno seguente ne affidò la gestione al figlio, Bartolo, che subito si meritò il titolo di... ‘o direttore. Con l'avvento del fascismo il "Verdi" divenne "cinema Dux". E quando, nel 1937, il regime vietò ai locali pubblici di usare questo nome, fu ribattezzato "Impero". Poi, nel 1945, a guerra terminata, "Diana".
La sala, piuttosto piccola, era ripartita in due livelli, la platea sotto, la loggia sopra, e poteva contenere al massimo 120 spettatori. Ma quando si proiettava un film importante c'era chi si accontentava di vederlo in piedi, mettendosi appoggiato alla parete.
Nel 1947, riferisce Aniello Lauro, ad Amalfi si aprì anche la sala "Roma", gestita da un maestro elementare (Negri). Era in via Pietro Capuano, all'angolo con via santa Maria Maggiore (‘e ddoje mure). I due cinema venivano così a trovarsi a una distanza di venti, venticinque metri l'uno dall'altro. Ci fu subito concorrenza. Nei tabelloni, scritti a mano col pennello, che annunciavano la programmazione, cominciarono ad apparire frasi di sfottò, da parte di Bartolo Lauro, che era un personaggio intelligente, dinamico, brillante, arguto. Capitò, così, che un giorno al "Roma" si proiettava "I Sette Gladiatori". Al titolo della pellicola Negri, sul manifesto, aveva aggiunto: "Sono i più forti". "Ce ne vogliono ancora tre per eguagliare i miei dieci" replicò il patron del "Diana" sul cartellone che annunciava, in contrapposizione, "I Dieci Gladiatori".
Bartolo Lauro - sottolinea il figlio - nel corso degli anni escogitò ogni strategia per far presa sul pubblico. Si inventava la lotteria che consisteva nel sorteggiare un biglietto omaggio per il prossimo film, la domenica faceva portare al cinema una tinozza di gelati e ne offriva uno a ogni spettatore, distribuiva confetti in occasione del matrimonio di una sorella, riduceva il costo del biglietto nella ricorrenza del compleanno di un figlio o della nascita di un nipote.
Fatto è che la sala "Roma" andò in crisi e dovette chiudere di lì a poco.
Nel 1950, nacque, in un edificio di nuova costruzione, il cinema "Iris" (poi "Odeon", ora "sala Ibsen"), moderno, con una capienza di cinquecento posti. Fu inaugurato - c'ero anch'io quella sera - con "Marcellino pace e vino" alla presenza del sindaco, dell'arcivescovo e di tutte le autorità locali. Bartolo Lauro corse subito ai ripari, ristrutturando il "Diana" e rinnovando le apparecchiature (acquistò un proiettore con cinemascope) e le suppellettili. Nel 1958 fu premiato con medaglia d'argento e diploma per la sua attività ultraventennale. Il 10 ottobre 1961 ricevette l'onorificenza di cavaliere dal presidente della Repubblica Gronchi. Meritato riconoscimento delle sue qualità umane e professionali. Senonché, appena un mese dopo, morì mentre stava giocando con i nipoti nel suo negozio di colori e ferramenta. La notizia fu accolta con dolore ad Amalfi e in tutta la costiera., dove era conosciuto e stimato. La gestione del cinema passò ai figli.
Questa, in sintesi, la storia del "Diana" che rimase in funzione fino al 1980. Ma ci sono le ‘storie', a volte esilaranti, delle quali Aniello si fa memoria. Riprendo il suo racconto: "Chi non ricorda il mitico Totò [Totonno] Esposito o Gigino detto ‘o Panzittone, nostri operatori che dalla cabina di proiezione diventavano protagonisti e all'occasione censori, aumentando o diminuendo il volume per una pernacchia fragorosa o coprendo con lo sportellino del proiettore una scena osé", mentre dalla sala il pubblico reagiva con "fischi, pernacchie, applausi, urla spietate". Sembrava di assistere - commenta Aniello - ai combattimenti tra Maciste e Ercole o alle cariche della cavalleria contro gli indiani. Ne facevano le spese i braccioli delle sedie. "Che sceneggiate, ma quanti danni!".
Le ho ben presenti queste scene. Come mi ricordo che, a film appena iniziato, c'era immancabilmente chi apriva la porta di sicurezza in fondo alla sala, per far entrare un piccolo esercito di ‘portoghesi'. Per lo più ragazzi. "L'organizzazione - nota Aniello - era una sorta di assalto alla Bastiglia; dieci ragazzi facevano la colletta tra loro per un solo biglietto, il ragazzo col biglietto accedeva nella sala e, iniziato il film, nella semioscurità apriva la porta di sicurezza e da questa s'infiltravano tutti i ragazzi che avevano partecipato alla colletta, prendevano posto, ma, come in un vero film, arriva la polizia; mio padre ed io, individuati gli infiltrati, prendendoli per le orecchie li cacciavamo fuori come in un Saloon Western che si rispetti... Ma dopo poco il clan tornava alla carica". Non c'era altro da fare che fingere di non vedere.
Ecco, infine, un episodio esilarante. Una sera si proiettava un film d'azione, di quelli che tengono lo spettatore col fiato sospeso fino all'ultima scena. La sala era piena. Il silenzio, pressoché assoluto, fu rotto all'improvviso da una scorreggia. Possente, come un petardo, proveniente da un gruppo di ragazzi seduti nelle ultime file. Altro che "elli avea del cul fatto trombetta" come leggiamo nella Divina Commedia (Inferno, XXI, 139). Mi torna alla mente un antico proverbio: "Tromba di culo sanità di corpo, chi non scorreggia è un uomo morto". Tanti anni fa, lo trovai pure scritto sul muro, a caratteri cubitali, in un ristorante italiano di Parigi, sito in rue Cardinal Lemoine.
Quella sera, al "Diana" di Amalfi, il pubblico scoppiò in una risata altrettanto fragorosa, capace di togliere dall'impaccio l'anonimo... 'trombettiere'; non la pensò allo stesso modo un brigadiere dei Carabinieri che si alzò di scatto dalla sedia, ordinò di accendere le luci, quindi si mise a identificare uno per uno quei... ‘mascalzoni'. La situazione era a dir poco comica. Il responsabile (credo che si chiamasse Antonio) fu individuato (forse si autodenunciò per evitare noie ai partner) e incriminato per schiamazzo in luogo pubblico. Il giorno del processo, l'aula della pretura, in piazza Municipio, appariva gremita di gente. Non si capiva se il povero pretore, abituato a farsi carico di ben altri problemi, era più divertito o infastidito di doversi occupare della faccenda. L'imputato si giustificò: "Signor giudice, che volete, m'è venuta naturale. Non ce l'ho fatta a trattenerla. Ero tutto preso da una scena travolgente del film... e non me ne sono nemmeno accorto". Chiaramente mentiva, lo sapevano tutti che s'era trattato di una bravata. La sentenza fu di assoluzione piena, perché "il fatto non costituisce reato".

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