Tu sei qui: Storia e StorieC'era anche mia zia sul treno della morte
Inserito da (redazionelda), giovedì 5 marzo 2020 12:12:02
di Salvatore Sorrentino*
Ravello, 4 marzo 1944. L'altrieri ho compiuto sei anni.
No, non sono a scuola, come giustamente si potrebbe pensare.
E nemmeno sono nell'orto a zappare, o addirittura in montagna a far legna o frascame per la mucca che, in stalla, aspetta da mangiare, per produrci il latte, che ci fa fare colazione, e ... un po' di soldi, per comprare qualche pagnotta di pane o qualcos'altro, da mettere sotto i denti.
In questo modo vivono i figli dei contadini di Sambuco, o di altre zone, agricole, di Ravello, i quali sono, in ogni modo, molto più fortunati di me, che latte non ne ho e che invidio quelli che mangiano pure qualche piatto caldo a mezzogiorno.
No, non sono a scuola, quel giorno, perché, a scuola, nel 1944, si comincia ad andare a sei anni compiuti: io devo aspettare il 16 ottobre prossimo, per cominciare la mia carriera scolastica.
La mia nipotina, il cui compleanno avviene 27 giorni dopo il mio, è andata a scuola un anno prima di me. Legittimamente.
Quel 4 marzo 1944, salii dall'Annunziata, dove abitavo, mi fermai un pochino davanti alla scalinata che porta al Palazzo dell'Episcopio. Vi erano schierati due militari, armati di fucile da guerra, che non mi facevano paura. Ero abituato a ben altro, al fragore delle bombe, e a cercar rifugio, durante la notte, sotto la "grotta di Scala".
Mi fermai, dunque, per vederli scattare sull'attenti, al passaggio di un Ufficiale degli Alleati o a quello del Principe Umberto, che scendeva dal temporaneo Palazzo Reale, cioè l'Episcopio, o vi risaliva.
Poi feci un salto in Piazza, al Vescovado, per metà occupata da camion e autoblindo militari degli Alleati, e delimitata da rotoli enormi di filo spinato, e da soldati ben armati.
A casa avevo lasciato mio fratello Umberto, quattro anni, a badare alla nostra sorellina di quasi tre, Netta (Antonietta); lui aspettava me, che gli avrei portato alcune mentine comprate nel negozietto di "Mariuccia ‘e Cascetta", che si trovava esattamente di fronte all'inizio di Via Trinità.
Per i curiosi chiarisco che le mentine erano delle caramelline alla menta, di colore rigorosamente verde, alquanto sottili, della grandezza di una attuale monetina da due centesimi: ne eravamo tutti golosi. D'altronde, erano le uniche caramelle che ci potevamo permettere!
Rientro veloce a casa, tutto normale, Umberto e Netta si erano addormentati, mi metto in attesa di papà e mamma; soprattutto di questa, la quale sarebbe tornata dal lavoro che svolgeva a Villa Fraulo. Qui erano alloggiati degli ufficiali americani, che mangiavano un bel pane bianco, in abbondanza, tanto che ne lasciavano tozzi a tavola.
Questi tozzi, a volte recuperati anche dalla cenere dei bracieri, con i quali si riscaldavano, e ripuliti, erano una manna per veramente sfamarci.
Mio padre rientrava a tutte le ore del giorno; quella sera non tornava, noi eravamo molto preoccupati; arrivò tardissimo; ci portò la ferale notizia: Zi ‘Ntunetta, zia Antonietta, era nel treno delle centinaia di vittime del tunnel di Balvano.
Zia Antonietta era la sorella (di secondo letto) pupilla di mio padre; si volevano tanto bene; stava spesso con noi, a Ravello; ormai orfana di padre, si dava da fare per procurare qualcosa per le due sorelle più piccole di lei.
In quel periodo della nostra storia, cominciavano ad arrivare al porto di Napoli navi strapiene di tessuti, soprattutto vestiario, nuovi o dismessi, che, però, erano una provvidenza per noialtri.
Balle di iuta, contenenti queste provvidenze, erano poi vendute (al prezzo delle spese di discarica e successivo trasporto) a Resina, oggi Ercolano, lungo il corso tra l'uscita dall'autostrada, a monte, e la statale 18, a valle.
Dai comuni campani circostanti, uomini e donne, viaggianti in vagoni merci o al massimo di terza classe, o spesso su carrette trainate da asini, oppure su autobus di linea, che trasportavano, sul tetto, bagagli d'ogni genere, e d'ogni peso, si portavano al mercato di Resina, acquistavano una balla di pezze, così si chiamavano, e la portavano a casa.
Qui l'aprivano e vi trovavano indumenti d'ogni genere, nuovi e usati, ma in ottimo stato. Mettevano il tutto in ordine, spesso provvedevano al lavaggio, con la soda, di quelli chiaramente usati, ne formavano nuove balle, più piccole, a forma di zaino, le inspallavano e andavano in giro a vendere.
Anche zia Antonietta si diede da fare, per cercare di aiutare la famiglia. Lei aveva scelto Potenza e dintorni per le sue operazioni, talvolta non di vendita, bensì di semplice baratto, delle pezze, con prodotti della terra o di artigianato, che portava a casa.
Quella maledetta notte del treno di Balvano, anche quella giovanissima vita si spense, e in che modo, assieme ad altre seicento, su quel treno 8017: non dimenticherò mai quel 17.
Mio padre, la sera di quel 4 marzo, giunse a casa scuro in volto, lo ricordo ancora, lacrime agli occhi, e ci comunicò che zia Antonietta stava su quel treno. Ma esprimeva la speranza che si trovasse fra le vite salvate.
Purtroppo la speranza andò delusa; zia Antonietta non tornò. Non solo, non abbiamo mai avuto il suo corpo, cui dare una pur minima sepoltura.
E così, anche Ravello fu colpita da quella sciagura, pur se solo indirettamente. Stamani, ad Agerola, un segno c'è stato, un ricordo, per le vittime agerolesi di quella disgrazia.
Evidentemente, a mia zia
"... prescrisse il fato, illacrimata sepoltura".
*già sindaco di Ravello
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