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Il mancato approdo a Milano e il pensiero delle "Pulizie della morte" di Sigismondo Nastri

La nostra memoria storica, a cui tutti attingono a piene mani, in una riflessione social sul "dopo di noi" che lo affligge

Inserito da (Admin), giovedì 2 marzo 2023 07:34:49

di Sigismondo Nastri

Fra poco più di un mese avrò 88 anni. Ho iniziato a scrivere sui giornali, dalla Costiera, nel 1951. Ero già allora un "tifoso" di Gaetano Afeltra, lo conoscevo da piccolo. Poi sono cresciuto alla sua ombra. Mi voleva bene, mi incoraggiava. Sognavo di fare il giornalista. Sul finire del 1953 egli mi offrì la possibilità di trasferirmi a Milano. Avrei lavorato in un istituto dei Padri di don Guanella (grazie alla cortese disponibilità di don Antonio Turri) e il tempo libero l'avrei occupato facendo "manovalanza" in un giornale. Dopo averci riflettuto molto, vi rinunciai. Mi mancò il coraggio di allontanarmi da casa.

Milano era allora, nel mio immaginario, lontanissima. I treni, lenti, affollati, scomodi, impiegavano un giorno intero o una notte per arrivarci. Ed era fredda. Avevo acquistato, perciò, maglie, mutandoni, calzettoni, berretti di lana, cappotto: pesantissimo. A ripensarci oggi mi rivedo come Totò e Peppino nel celebre film della malafemmina. O come il maestro Riccardo Muti quando arrivò la prima volta nella metropoli lombarda. Solo che io non ci misi piede.

All'epoca conoscevo sì e no Salerno: c'ero stato per l'esame di maturità al liceo Tasso. Ho avuto poi il privilegio di ricordare "don" Gaetano Afeltra in una cerimonia pubblica ad Amalfi insieme con l'ex direttore del Corriere della sera Ferruccio de Bortoli. Un onore grandissimo, inaspettato, ma - lo confesso - fortemente desiderato.

Comunque, non è di questo che voglio parlare. Sto rileggendo una "testimonianza" di Antonio Polito sulle "pulizie della morte" risalente a qualche anno fa. Un racconto, affascinante, che fa riflettere. Ci trovo esperienze vissute da me in prima persona e che, inevitabilmente, sono destinate a ripetersi: toccherà a mia moglie e ai miei figli di farsene carico.

Intanto mi sto adoperando per dare già ora una collocazione alle mie cose. E come è difficile! Pagine e pagine di giornali e riviste ammucchiate in oltre settanta anni (non solo le mie corrispondenze), più molte risalenti addirittura ai primi decenni del Novecento (articoli di Matteo Incagliati e Cesare Afeltra sul Giornale d'Italia): ho potuto trasferirle, per fortuna, al Centro di Cultura e Storia Amalfitana perché diventino patrimonio di tutti; e libri: solo in parte donati alla biblioteca comunale di Maiori, nata anche col mio contributo.

Però non decolla, non suscita interesse, nonostante l'acquisizione di almeno due altri fondi: uno davvero importante, dell'on. Amodio, ottenuto con la mia mediazione. È terribilmente difficile far accettare una donazione di libri - e non mi riferisco a testi scolastici, o a enciclopedie, ormai fuori moda - a una istituzione pubblica.

Poi ci sono gli oggetti: poveri, ma autentici. Cito, a mo' di esempio: un paio di grossi chiodi provenienti da Pogerola di Amalfi, località dove anticamente si fabbricavano anche le centrelle (piccoli chiodi a testa robusta che si fissavano alle suole degli scarponi dei soldati in tempo di guerra); un'etichetta del Pastificio Amalfitano (ora albergo) risalente all'inizio del XX secolo; alcuni fogli filigranati della vecchia cartiera Imperato (che non c'è più); dei fogli di carta velina, col marchio dell'agrumento, nei quali venivano avvolti i limoni a Maiori, prima dell'imbarco sui piroscafi per essere esportati nel Nord Europa. Fotografie. Utensili domestici e da lavoro. Piccole cose, vero. Che avrebbero potuto fare da stimolo alla creazione di un museo della Costa d'Amalfi: etnografico-antropologico, delle tradizioni, dei mestieri, degli usi e costumi, eccetera.

Un museo più volte suggerito, proposto, invocato. Tempo perso. La memoria storica - non la grande storia delĺa Repubblica marinara, che ci fa gonfiare la bocca, quando ne parliamo, ma quella costruita dalla gente giorno per giorno - non appartiene alla cultura del territorio. L'idea che possa finire tutto in mano al rigattiere o all'isola ecologica non mi lascia tranquillo.

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