Tu sei qui: Attualità Viviana Varese si racconta al CorSera: «Terrona, ex obesa, lesbica. Il Covid è la mia quarta sfida»
Inserito da (admin), giovedì 30 aprile 2020 11:59:24
«Terrona, ex obesa, lesbica. Il Covid è la mia quarta sfida». Viviana Varese, chef stellata del ristorante Eataly Smeraldo di Milano si racconta, in tempo di quarantena ad Alessandra Dal Monte per il Corriere della Sera. La 46enne, originaria di Maiori, l’8 marzo del 2014 è stata insignita del premio "Io donna per Maiori" per la sua attività.
«Mi sento in bilico tra l’idea di non riaprire più e quella di riaprire in un modo che ancora non conosco». Viviana Varese risponde al telefono dalla cucina del suo ristorante «Viva», una stella Michelin dentro Eataly Smeraldo, a Milano. È da sola. Sta preparando i nuovi menu delivery «Viva a casa»: «Tre o quattro portate, a scelta del cliente, da scaldare o cuocere. Le basi sono tutte fatte da me. Avevo voglia di tornare a cucinare, ferma stavo ingrassando. Mi stava anche venendo un po’ di depressione, avevo bisogno di sforzo fisico. Altro che i primi giorni di quarantena, quando ero carica: ricette da casa, videochiamate con la brigata... ultimamente non ne volevo più sapere. Allora ho puntato sulle consegne a domicilio. A Pasqua ho fatto da sola 200 coperti perché i miei ragazzi non se la sono sentita di venire ad aiutarmi, avevano paura. E io non obbligo nessuno. Ho lavorato dalle 6 del mattino a mezzanotte per una settimana, non mi succedeva da oltre vent’anni. Da quando mi sono indebitata per tenere aperto "Il girasole", il ristorante pizzeria di mio papà a Orio Litta, in provincia di Lodi. Eravamo una famiglia di campani emigrata in Lombardia quando ancora ai terroni la gente sputava addosso. Mi sono dovuta prendere un socio lombardo altrimenti non mi avrebbero rinnovato l’affitto. Per andare in pari ho lavorato sette giorni su sette per cinque anni, mai una vacanza. Ora con il Coronavirus ho paura di ritrovarmi come allora: ho appena ristrutturato "Viva", ho investito tanto... Chissà come andrà. Ho bisogno di riaprire ma sono contenta che non succeda prima dell’1 giugno, non voglio farlo frettolosamente per poi dover richiudere con un nuovo focolaio. Però devo dire che questi giorni di fatica pura mi sono serviti. Ho pensato tanto».
A cosa? «Al dopo. In attesa di capire le regole definitive mi sono venute delle idee: l’asporto non lo farò, ma continueremo con i menu a domicilio, faremo anche gli chef a domicilio, cioè manderò i ragazzi della brigata a casa delle persone a cucinare, perché tanti avranno paura di uscire. Ma soprattutto stravolgerò il ristorante. Dai 60 coperti attuali ne farò massimo 40. Ma mi accontenterò anche di 20. Non per una questione di spazi, ho 250 metri quadrati, il distanziamento si riuscirebbe a mantenere. Ma per la sicurezza degli ospiti e di chi lavora: farò turni rigorosi in modo che i miei 30 dipendenti non siano mai tutti insieme. La carta verrà dimezzata: terrò 12 piatti al posto dei 24 attuali, punterò per una metà su quelli simbolici e per il resto farò un menu stagionale con ottime materie prime ma non costose. Eliminerò il caviale, per esempio. E se prima la mia era una cucina italiana con influenze da tutto il mondo ora rimarrò sulla filiera nazionale perché voglio sostenere i nostri produttori. Abbasserò i prezzi, perché la verità è che le persone non avranno più la possibilità di spendere che avevano prima. Quindi al posto di 120, 130 e 150 euro farò menu degustazione da 70, 80, 90 euro. Una riduzione del 40 per cento. Il servizio sarà più snello e le cotture più tradizionali. Torneremo alla padella, perché voglio eliminare il 50 per cento della plastica: quindi niente più bassa temperatura, niente più sacchetti per il sottovuoto. La sfida sarà fare avanguardia con gli strumenti di base».
Tutte idee che, a dire il vero, le erano balenate in testa già prima dell’emergenza sanitaria. «Anche pre-Coronavirus ero un po’ in crisi sul tema dell’alta ristorazione: parlando con tante persone appassionate avevo l’impressione che si fossero stancate dell’esperienza ingessata, ormai uguale dappertutto. E spesso cara, troppo, rispetto all’offerta effettiva. Dopo questa pandemia tutto andrà ripensato, quel livello di servizio eccelso e super lusso rimarrà solo per i ristoranti tre stelle, un po’ come succedeva vent’anni fa. Gli altri dovranno puntare su una grande cucina con una grande materia prima, ma con più semplicità. Lo stellato sarà emozione, condivisione, relax. Quindi anche le guide dovranno cambiare: una cantina da 800 etichette non sarà più immaginabile, un ragazzo che versa l’acqua a ogni cliente non ci potrà più essere. E lo dice una che si è sempre impegnata per le stelle, la ristrutturazione che ho fatto un anno fa guardava alla seconda... ma poi mi sono resa conto di avere una brigata militare con un maitre di sala che terrorizzava tutti. L’ho cacciato, e a dicembre ho rimescolato di nuovo il personale: ho messo due commis in sala, faccio girare i cuochi tra i tavoli... Ho fatto della diversità e del rispetto il centro del mio lavoro. Quando riapriremo abolirò i ruoli: saremo in sei per volta al posto di 16, tutti faremo tutto, anche il lavaggio piatti».
Viviana Varese è un fiume in piena. La grinta non le manca, del resto non le è mai mancata: «Certo a quasi 46 anni non ho più la forza di quando ne avevo 20, ma ho vissuto talmente tante diversità nella mia vita che difficilmente mi abbatto. Terrona, obesa, lesbica. A 7 anni ero esclusa perché meridionale. Il razzismo che ho vissuto per me è stato un trauma. A 13 anni lavoravo come pizzaiola ufficiale nel locale dei miei genitori ed ero obesa. Pesavo 125 chili. Non uscivo, non andavo in discoteca. Nonostante questo ero allegra, leggevo, ero amica dei professori delle magistrali, facevo teatro, costruivo cose. Vivevo in un mondo tutto mio. E dentro mi cresceva l’ambizione di farcela. A 18 anni mi sono operata allo stomaco, ho perso 60 chili e ho trovato il coraggio di dichiararmi alla mia migliore amica, una ragazza danese conosciuta all’accademia di shiatsu in via Settembrini. Ovviamente pensavo di essere l’unica lesbica al mondo, pensavo di essere pazza. Siamo state insieme un anno e mezzo, siamo andate a vivere a Copenaghen, dovevamo aprire un ristorante insieme. Poi lei mi ha lasciato perché si è innamorata di un uomo ed esattamente una settimana dopo mio papà è morto. Al funerale, durante il discorso in chiesa, ho detto che mi piacevano le donne. Ho scoperto che lo sapevano già tutti, papà per primo, l’unico della famiglia che veniva a trovarmi in Danimarca.
Da allora mi è venuto il pallino di riaprire la sua attività: per guadagnare facevo la pizzaiola a Lodi ma intanto studiavo cucina. Nel 1995 ho fatto uno stage da Marchesi a Erbusco, stage che ho pagato io, un milione di lire dell’epoca. Gli sono piaciuta e mi ha fatto rimanere altri tre mesi, gratis. Da Santin a Cassinetta di Lugagnano le donne non le prendevano, però io le basi le avevo, ho ristrutturato "Il girasole" facendo oltre un miliardo di debiti e per anni ho sfornato pizze e piatti semplici, buoni. È stato lo stage dai Roca ad aprirmi gli occhi: cucina eccezionale, brigata eccezionale, chef visionari che divulgavano il sapere, spiegavano le ricette, trattavano tutti bene. Volevo essere una cuoca così. Nel 2006 ho venduto "Il Girasole", nel 2007 con Sandra Ciciriello, che all’epoca era la mia compagna, ho aperto "Viviana Varese" in via Adige. La stella è arrivata nel 2013, dal 2014 sto dentro Eataly, che per altro in questo momento mi sta aiutando perché non mi fa pagare l’affitto. Con Sandra ho lavorato fino al 2018 anche se non stavamo più insieme da tanti anni. Ora la mia socia è Ritu Dalmia, ho un’altra compagna che non fa il mio lavoro. Vivo in via Settembrini, perché nella vita tutto torna. E la fame di farcela non mi è ancora passata».
Fonte: Corriere della Sera
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