Tu sei qui: AttualitàFranco di Mare su Cormez: Ravello che ha tradito se stessa
Inserito da (redazionelda), venerdì 4 dicembre 2015 12:27:29
Pubblichiamo il racconto che il giornalista Rai e conduttore del programma Uno Mattina, Franco Di Mare ha affidato alle pagine del Corriere del Mezzogiorno dal titolo: "Ravello, che ha tradito se stessa. Altro che il «modello Bilbao»" in cui si rammarica per le vicissitudini con cui Ravello e la sua Fondazione è costretta a fare i conti in questi ultimi mesi. Di seguito proponiamo testo integrale delle riflessioni di Di Mare.
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Ammettiamolo: chi di noi conosceva Bilbao venti anni fa? Voglio dire: quanti avrebbero saputo indicare la sua esatta posizione sulla cartina? Al netto degli appassionati geografi e dei grandi viaggiatori che albergano in ogni consorzio umano, la maggior parte di noi si sarebbe fatta cogliere da almeno un dubbio: sarà in Spagna o in Portogallo? Ma quand'anche avessimo vagamente saputo che Bilbao si trova nella penisola iberica, saremmo andati a cercarla direttamente dov'è collocata dal giorno della sua fondazione, oppure il nostro sguardo avrebbe vagato incerto su e giù lungo la cartina geografica?
Avanti: ma dove diavolo si trova Bilbao? Da diciotto anni possiamo affermare di saperlo con assoluta certezza. Bilbao è tutto quello che si trova intorno al museo Guggenheim di Frank Gehry. Prima che la celebrata archistar canadese desse vita e forma al progetto di quella formidabile astronave aliena atterrata sulle sponde del Nervion, lungo le coste settentrionali della Spagna, non erano in molti ad aver visitato la capitale dei paesi baschi. Anzi, erano davvero pochi i turisti che si spingevano fino al golfo di Biscaglia, sottraendo giorni alle ramblas di Barcellona, ai viali di Madrid, alle corride di Siviglia e alle spiagge all inclusive delle Baleari. A giocare contro Bilbao non era soltanto la distanza dalla capitale ma anche il sottile, ingiustificato — seppur comprensibile — timore di restare coinvolti in qualche violenta diatriba separazionista imbastita dall'Eta.
Dal 1997, però, tutto è cambiato. E l'indiscusso merito di questa rivoluzioneva al museo d'arte moderna di Gehry. È grazie a chi ha avuto la lungimiranza di puntare sulla cultura e sui suoi meccanismi di seduzione internazionale se oggi Bilbao conta oltre un milione di visitatori all'anno che si reca in quelle lontane sponde attratto come lemming dall'irresistibile richiamo che esercita lo spettacolare museo d'arte contemporanea della fondazione Guggenheim. Il fenomeno è stato di così straordinarie proporzioni che da anni viene studiato nelle facoltà di economia di mezzo mondo come incontrovertibile e lungimirante esempio di capacità imprenditoriale, di marketing e di visione strategica. La presenza del museo ha rivitalizzato l'economia dell'intera area e oggi il Guggenheim e il suo indotto valgono un punto e mezzo di Pil della regione basca. La ciclopica costruzione ricoperta di scaglie di titanio, come le squame della coda di una sirena distesa sulle rive del fiume, è diventata un'attrattiva internazionale il cui valore di brand è superiore a quello delle stesse opere che contiene. A differenza di quanto avviene con il Prado di Madrid, dove ci si reca come pellegrini laici a rendere omaggio alle tele di Goya e Velasquez, nessuno saprebbe dire quali sono le mostre permanenti contenute nelle monumentali cavità del ciclope. Il che, a ben riflettere, vuol dire che ci troviamo davanti a un caso di evidente prevalenza della forma sul suo contenuto, un fenomeno non inedito, intorno al quale strutturalisti e semiologi hanno riempito centinaia di tomi con ponderose riflessioni e robuste analisi.
È per questo che salutiamo l'arrivo del filosofo Sebastiano Maffettone alla guida della Fondazione Ravello con il cuore gonfio di speranze e aspettative. Perché forse occorre lo sguardo morbido e acuto del filosofo, una diversa visione del mondo, una inedita weltanschauung per dipanare la matassa aggroviglia e all'apparenza inestricabile di fronte alla quale si è arreso perfino un intellettuale raffinato e stimatissimo come Domenico De Masi - al quale va in ogni caso la nostra eterna riconoscenza per essere riuscito a realizzare l'auditorium Oscar Niemeyer di Ravello, a dispetto di un numero di difficoltà impressionanti, dai risvolti incredibili e non di rado grotteschi.
Perché a riflettere bene il punto è (e mi scuso se pongo la questione in manieracosì rozza e tranchant): ma che cos'ha Ravello meno di Bilbao? Per quale ragione quello che è riuscito a una città tagliata fuori dai circuiti del turismo internazionale, situata alla foce di un fiume che sbocca su un mare gelido, dal colore del ferro, non può riuscire a un gioiello storico e paesaggistico incastonato nei monti che sovrastano Amalfi? Per quale arcano motivo Ravello non può diventare polo di attrazione permanente e non stagionale per la raffinata e trasmigrante tribù del turismo culturale internazionale?
Certo, sono consapevole del pericolo che corro nel fare confronti tra realtà così distanti sul piano geografico, politico, strutturale ed economico. La contestazione più evidente alle domande che pongo è che si tratta di realtà non paragonabili fra loro. Troppe sono le differenze in termini di amministrazione e perfino di antropologia culturale che corrono tra le due comunità. Sono d'accordo, ma vi chiedo la possibilità di lasciarmi forzare un po' la mano e chiedere: per quale motivo non possiamo immaginare una storia diversa per Ravello e il suo festival della musica? In altre parole: cos'è che impedisce a una delle più belle cittadine italiane di competere in capacità attrattiva con altre città della musica come Bayreuth? Qualcuno obietterà che Bayreuth è la città che ha dato i natali a Richard Wagner. Va bene. Ma Ravello è cantata da Boccaccio. E la vocazione musicale del luogo è confermata dalla presenza di Arturo Toscanini, Leonard Bernstein, Mstilav Rostropovich, Bruno Walter. A Ravello sono passati Mirò, Escher, Turner, e scrittori come Forster, Virginia Wolf, Lawrence, Gide, Paul Valery, Graham Green, Tennessee Williams, Rafael Alberti. Gore Vidal, poi, aveva una villa spettacolare a Ravello. Per non parlare del fatto che Wagner immaginò che il giardino di Klingsor del Parsifal fosse come i giardini di villa Rufolo. Ma perché allora, con i quarti di nobiltà culturale di cui dispone, Ravello deve restare negli annali delle nostre cronache per aver fatto da sfondo al matrimonio dell'ex ministro Brunetta? Solo chi non ha mai assistito a un concerto di Brahms eseguito da un'orchestra di trentasei elementi disposti sulla pedana artificiale di giardini che sembrano sospesi nel vuoto, di fronte alla quinta naturale di uno dei panorami più suggestivi del mondo, può trovare questa domanda inadeguata o inopportuna. Perché francamente io ancora non ho capito per quale motivo Ravello non sia divenuta la città della musica mondiale per eccellenza. Davvero sono i ravellesi a non volerlo, a creare difficoltà?
Dal momento che non intendo cadere nella trappola antropologico culturale del genius loci - la maledizione biblica del «così vanno le cose da queste parti» — occorre fare uno sforzo e immaginare altro. E a guardare il panorama delle opere incompiute (o compiute male) di cui è disseminato il nostro paese ci si potrebbe consolare davanti all'evidenza che la questione non è meridionale, come potrebbe sembrare a uno sguardo frettoloso, poiché ci sono molti altri esempi di pigrizia politica e imprenditoriale sparsi un po' dovunque lungo tutta la Penisola, lacci e lacciuoli che hanno impedito a progetti vincenti sulla carta di diventarlo poi compiutamente anche nella realtà.
In un romanzo dal titolo Il caffè dei miracoli ambientato in una immaginaria cittadina chiamata Bauci, in devoto ossequio alle città invisibili di Calvino (Bauci era quella su lunghi trampoli, i cui abitanti vivevano in alto, tra le nuvole e non si mescolavano con quelli di sotto) ho immaginato che a impedire la costruzione di un rifugio permanente per le opere dei grandi artisti di passaggio per quel paese immaginario fosse in realtà non solo l'amministrazione comunale, ma la resistenza al cambiamento che è propria di ogni comunità. In fondo siamo un po' tutti vittime di una zavorra psicologica che ci induce a pensare che cambiare sarà pure utile, a condizione però che siano gli altri a farlo, tranne noi. E se a questo si aggiungono i piccoli egoismi paesani, le gelosie e le invidie che si generano intorno alla costruzione del nuovo, forse cominciamo a delineare i profili di una storia che non è solo di Ravello, ma è la storia universale della riluttanza al cambiamento proprio di ogni comunità. Insomma, l'eterna battaglia fra tradizione e innovazione, fra assertori dello status quo e pionieri della trasformazione. Viene in mente - lo ricorderete di certo - un delizioso film interpretato da Juliette Binoche e Johnny Deep intitolato Chocolat, tratto dall'omonimo romanzo di Joanne Harris. Vi si narra la storia di una donna che, in una notte di tregenda, arriva in un paesino della Normandia con la balzana idea di aprire, in quel luogo sospeso nel nulla plumbeo dei mari del nord, un negozio di cioccolato. Ma non una qualunque cioccolateria, si badi bene. Quello che ha in mente la protagonista è un posto che produca cioccolatini ripieni di liquori esotici, pepe di Caienna, peperoncino delle Mauritius, mandorle, frutta esotica. La cioccolateria diventa un elemento di attrazione del per gli abitanti del paese, e d'incanto tutto sembra rivitalizzarsi. Ma i dubbi cominciano a serpeggiare. C'è troppa allegria in giro. Il sindaco comincia a insospettirsi. Cosa ci sarà in quei cioccolatini? In breve quel negozietto di dolciumi si tramuta nell'equivalente di un covo di sabotatori del sistema, un luogo dove si progettano attentati alla tradizione e alle rassicuranti certezze del paese. Occorre intervenire. E così il prete, istigato dal primo cittadino, inizia a lanciare anatemi contro le tentazioni del vizio e i peccati di gola. Insomma, un piccolo negozio di cioccolato si trasforma rapidamente in un casus belli.
E così la domanda resta la stessa, per la cioccolateria, per il museo del mio romanzo o per l'auditorium di Ravello: siamo davvero disposti ad accogliere il cambiamento? Siamo pronti a mettere in discussione le nostre abitudini, le confortevoli sicurezze della nostra vita in cambio di un benessere garantito solo dal progetto? Siamo veramente disposti a investire nel nuovo?
Il festival di Ravello, e l'intera rete di offerte culturali ad esso legate, potrebbero diventare quello che il museo Guggenheim è per Bilbao, quello che il festival della Musica è per Bayreuth, quello che il parco della Musica è diventato per Roma: una formidabile occasione di promozione per un intero territorio. Occorre volerlo davvero però. Quanto è pronta la Fondazione a puntare su questa scommessa? E Ravello ci crede? È intorno a queste domande che ruota questa storia infinita. E intorno alle stesse domande ruota anche il mio romanzo. Ma non vi dico come va a finire. Per scaramanzia.
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